News

Pagina 1 di 2  > >>

31-05-2013

Didattica con gli archivi per la storia locale.
La scuola in archivio e l’archivio a scuola per raccontare storie di vita passata.
Il progetto del Sistema Bibliotecario di Dalmine, con il contributo economico della Regione Lombardia, ha coinvolto alcune scuole medie (anno scol. 2012-2013).

18-06-2012

"La banda di Sforzatica, 1922-2012" a cura di Claudio Pesenti, Valerio Cortese ed Enzo Suardi

31-10-2011

L'emigrazione in Italia e a Mozzo dai documenti dell'archivio comunale

29-10-2011
Pubblicate online le mappe napoleoniche
17-09-2011
"Dalmine: dal leone al camoscio. Storia di cinque comuni e uno stemma" a cura di Claudio Pesenti, Valerio Cortese ed Enzo Suardi
11-10-2010
relazione Giovanni Da Lezze
sui Comuni dell'area di Dalmine nel 1596, a cura di Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani, Bergamo, 1988
 

Caporetto, il dramma della Prima Guerra Mondiale

Caporetto, un momento fondamentale non solo per la storia della Grande Guerra ma per l’esistenza stessa della giovane nazione italiana.

"Ma in una notte triste si parlò di tradimento..."


1. Il contesto generale. Caporetto.

L’ottobre del 1917 fu particolarmente freddo e piovoso. Stava per iniziare il quarto inverno di guerra (terzo per l’Italia). L’estate aveva visto una situazione bellica caratterizzata da stanchezza e sfiducia. I grandi eventi dell’anno furono, come è noto, la rivoluzione (anzi, le rivoluzioni) in Russia e l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Tutti gli eserciti in lotta erano stati attraversati da venti di rivolta, repressi (specie nel caso francese) con durezza. Oramai la guerra, quella guerra che nell’estate del 1914 gli esperti di cose militari ritenevano sarebbe finita in pochi mesi, si stava trascinando ed era ormai chiaro che l’avrebbe vinta chi sarebbe riuscito a resistere un minuto in più dell’avversario.

L’esercito italiano era stato condotto con spietata mano dal grande comandante, il generale Cadorna, che l’aveva scatenato a più riprese, e senza grandi o almeno duraturi successi, contro le ben difese linee austriache.

L’autunno sembrava dover portare con sé una stasi nelle offensive italiane e da parte degli alti comandi si pensava che anche da parte austriaca si sarebbe attesa la primavera prima di eventuali mosse. Invece … invece, come è noto, a fine ottobre le forze austriache, rafforzate da reparti tedeschi altamente efficienti, sfondarono il fronte italiano nei pressi di Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia) determinando una ritirata che portò le truppe italiane sulla linea del Piave, facendo perdere in pochi giorni conquiste territoriali costate centinaia di migliaia di morti e feriti.

Caporetto segnò un momento fondamentale non solo per la storia della Grande Guerra, con la concreta possibilità che l’Italia si chiamasse fuori dal conflitto e il conseguente sbilanciamento a favore degli Imperi Centrali, ma per l’esistenza stessa della giovane nazione italiana. Caporetto segnò il crollo di un esercito stanco, mal condotto e poco motivato, il Piave la resistenza di una Nazione che seppe trovarsi (o ritrovarsi) nel momento più difficile. Come è noto, infatti, la fragile linea di difesa sul Piave seppe resistere agli attacchi del nemico, un nemico che non seppe, sorpreso lui stesso dal crollo italiano, sfruttare al massimo gli eventi. Nell'ottobre 1917 cominciò dunque per il nostro Paese una nuova guerra, condotta con metodi più moderni e che tenevano maggiormente conto delle esigenze della truppa, una guerra che terminò con l'ultima e vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto, avviata esattamente un anno dopo la rotta di Caporetto, a segnare anche simbolicamente un rovesciamento completo della situazione.

2. Il contesto locale.

E Mozzo, in tutto questo cosa c’entra? C‘entra, come c’entrano tutti i comuni italiani, caratterizzati da monumenti ai caduti che fanno bella mostra nelle piazze della Penisola. Mozzo ha avuto i suoi caduti ed è probabile che nelle terribili giornate dell’ottobre 1917 anche qui si sia temuto il peggio. E l’archivio comunale ci propone un documento assai interessante, la circolare che in data 30 ottobre il ministro Ubaldo Comandini (ministro senza portafogli responsabile in particolare di opere di propaganda e di assistenza di guerra) inviò a tutti i comuni del Regno attraverso la capillare organizzazione di assistenza e propaganda presente in ogni provincia.

3. Il documento: la circolare Comandini

La circolare è breve e intensa, redatta con tono perentorio e spirito ovviamente patriottico. Il momento è grave e tutti se ne rendevano conto, se pensiamo che all'epoca si era ipotizzata una seconda linea difensiva oltre a quella del Piave organizzata addirittura sul corso del Mincio, cosa che avrebbe fatto arretrare i confini nazionali su quelli del 1866. Ma l'interesse della circolare è rappresentato da alcuni elementi apparentemente meno importanti ed evidenti che, però, sono significativi almeno per due ragioni: da un lato perché fanno cogliere uno degli aspetti per lungo tempo taciuti di quel tremendo conflitto, cioè il suo carattere anche etnico-razziale; e dall'altro perché sembrano anticipare, nel lessico e nel tono generale, quel cambio culturale che di lì a pochi anni, attraverso il Fascismo, avrebbe caratterizzato il nostro Paese (e non solo, ovviamente).

La circolare è conservata nell'archivio storico comunale, faldone 6, fascicolo 56.

4. La circolare, analisi del documento

Il testo della circolare ministeriale è preceduto da poche parole dell'avvocato Dolci, segretario per la provincia di Bergamo delle “Opere federate di assistenza e propaganda nazionale”, con le quali invita i sindaci “...a leggere e far leggere questa voce della Patria...” affinché tutti si sentano parte di questo grave momento e svolgano il loro dovere.

Il ministro apre il suo appello con un richiamo alle mutate condizioni del conflitto in seguito alla “...situazione interna della Russia...” dove, la seconda rivoluzione di quell'anno, aveva portato il fronte Orientale ad un armistizio di fatto. Come sappiamo, la lotta su più fronti che la Germania (impegnata contro la Russia a Est e i franco-britannici ad Ovest) e l'Austria-Ungheria (a lungo impegnata dalla stessa Russia, dalla Serbia, prima, e dall'Italia, poi) avevano dovuto affrontare ne aveva limitato le potenzialità. L'Austria-Ungheria aveva concentrato i propri sforzi ad Oriente e nei Balcani, lasciando di fronte agli italiani solo le forze strettamente necessarie a tenere il fronte. Ad eccezione della “Spedizione punitiva” della primavera 1916, infatti, gli austriaci si erano posti sulla difensiva lasciando agli italiani la responsabilità di condurre una guerra d'attacco.

Il crollo russo, però, cambiava le carte in tavola: ancora lontani gli USA, formalmente in guerra da alcuni mesi ma non ancora in grado di dispiegare il loro immenso potenziale economico-militare (cosa che avverrà solo a partire dalla primavera successiva), nell'autunno del 1917 tedeschi ed austriaci erano finalmente liberi di concentrarsi ad Ovest. Se per la Germania la situazione era di fatto quella auspicata all'inizio del conflitto, anche se rovesciata (nei piani tedeschi dell'estate 1914 si prevedeva infatti il crollo francese in poche settimane così da potersi in seguito concentrare sulla Russia), per l'Austria-Ungheria significava per la prima volta poter avere un solo nemico, per giunta indebolito da oltre due anni di guerra durissima e poco redditizia.

In poche settimane fu pianificata così un'offensiva che aveva lo scopo di alleggerire il fronte italiano e che, come sappiamo, andò poi al di là delle previsioni. I reparti austriaci furono affiancati da forze speciali tedesche (nelle quali ritroviamo un giovane ufficiale che poi sarà noto più tardi, Erwin Rommel) che stavano sperimentando nuove tecniche di combattimento poi utilizzate anche sul fronte franco-inglese: si trattava di superare il modello, fino ad allora seguito da tutti gli Stati Maggiori impegnati nel conflitto, delle grandi offensive di massa e di introdurre nuove tecniche basate anche sulla preventiva infiltrazione del fronte nemico da parte di piccoli reparti specializzati con lo scopo di preparare la successiva offensiva su larga scala.

Questa tecnica fu sperimentata con successo proprio a Caporetto, proprio contro i reparti italiani i quali furono dapprima sottoposti ad un terribile bombardamento anche di gas particolarmente letali e poi assaltati dalle forze congiunte austriache e tedesche. Rapidamente l'avanzata austriaca assunse le proporzioni di un vero e proprio sfondamento e nel giro di meno di due settimana costrinse l'esercito italiano a ritirarsi di decine di chilometri fino alla linea del Piave, lasciando sul terreno oltre 40.000 fra morti e feriti, circa 250.000 prigionieri, oltre a migliaia di pezzi di artiglieria e mitragliatrici. Quasi un milione furono i profughi civili che abbandonarono le loro case in territorio divenuto austriaco.

Ma torniamo alla circolare: il Ministro prosegue con un misto di gravità solenne e inevitabile fiducia nella capacità del Paese di resistere alla prova e di prevalere sul nemico. I responsabili locali dell'organizzazione di assistenza e propaganda vengono ripetutamente invitati a farsi promotori di ottimismo, banditori della necessità di “fare quadrato”, sollecitati a lavorare sul territorio al fine di “...rincuorare i pusillanimi, disperdere i fantasmi del pessimismo, confondere gli allarmisti, porgere ai timidi e ai dubbiosi l'esempio della più serena fermezza e fiducia”.

E fino a qui, siamo nell'alveo di quella retorica patriottica che, in determinati momenti, rappresenta il baluardo di ogni Nazione che veda a rischio la propria sopravvivenza. Dove, però, la circolare Comandini sembra andare al di là di questi toni, almeno per l'Italia, è nel periodo successivo dove, rivolgendosi a madri e spose d'Italia, fa loro presente che figli e mariti stanno difendendo “...le tradizioni della razza, la sicurezza del focolare”. Troviamo qui mescolati due elementi fra loro assai diversi: la naturale, tradizionale, tendenza alla difesa della propria terra e una forse nuova caratterizzazione in senso etnico della tradizioni nazionali. La Grande Guerra, come forse ancora non è stato messo debitamente in risalto, almeno in Italia, fu infatti un conflitto tradizionale e moderno al tempo stesso: tradizionale quando mirava alla necessità di difendersi da un nemico (si pensi solo al caso della Francia invasa e occupata nella sua parte Nord-occidentale dai tedeschi per oltre quattro anni e minacciata nella sua capitale nell'estate del 1914, o della Germania stessa che temeva “l'orda slava” alle sue frontiere); moderno quando mostrava quello stesso nemico come “altro” etnicamente prima ancora che culturalmente. In particolare proprio in Francia, ma anche in Germania, la diversità naturale, di etnia, di razza, del nemico era dichiarata chiaramente, propagandata in molti modi. La irriducibile diversità di razza dei tedeschi, nuovi barbari, era chiara ai Francesi; così come la stessa diversità degli slavi russi era ben sbandierata all'opinione pubblica tedesca.

Il caso italiano si presentava come in parte diverso, perché se è vero che gli austriaci erano comunque assimilati al nemico storico contro il quale erano state combattute le gloriose guerre d'Indipendenza (di cui il presente conflitto si presentava come naturale conclusione), si era fino a quel momento poco puntato sui caratteri intrinsecamente negativi del nemico. La circolare Comandini, dato soprattutto il momento drammatico, si pone quindi come punto di svolta del conflitto: la lotta non è più (o non solo), per liberare le terre irredente e per elevare il Paese rispetto alle altre Nazioni, ma diventa lotta fra razze, quindi esasperata e ancora più da vincere ad ogni costo.

Comandini prosegue con accenni più tradizionali, facendo ad esempio riferimento, quando si rivolge ai lavoratori impegnati nel “fronte interno” ad una “...giustizia e libertà del lavoro...” in verità non messa in discussione, visto che il nemico non si poteva certo dipingere come arretrato in questo campo. Più avanti, però, torna l'elemento etnico quando il ministro introduce l'elemento della “Gentilezza latina [che] si ritempra in questa prova suprema e si fa lama d'acciaio, che a stento piegata, subito scatta e si protende contro il petto nemico diritta e minacciosa”. C'è, in quella “Gentilezza latina” tutto l'orgoglio di chi, di fronte a un nemico “teutonico” (dato che, ad onta della multi etnicità dell'esercito austro-ungarico, al solo elemento tedesco si riduceva poi il dato dell'avversario), quindi storicamente avvezzo alle armi, alla violenza, alla forza (e alla virilità), rivendica per sé e la propria stirpe la capacità di combattere con forza e pari violenza assieme ad un'indole forse troppo a lungo cullata come peculiare. Comandini in buon sostanza ci dice che gli italiani, eredi di latini e romani, assommano in sé sia l'elemento di civiltà (a livello europeo contrapposta proprio alla Kultur tedesca) costruttiva (nelle arti e nel diritto), sia la forza distruttiva evocata dalla gravità del momento. Gli italiani non sono quindi un popolo imbelle, come per secoli si è pensato (Franza o Spagna purché se magna), ma sanno affiancare la necessità della forza alla tradizione positiva di duemila anni di civiltà. Comandini sfata dunque il tipico senso di inferiorità del nostro Paese che ancora oggi talvolta si interroga sulla capacità degli italiani di essere “bravi soldati”, capacità che la Storia avrebbe messo spesso in dubbio e che andrebbe confermata ad ogni costo.

Comandini invece esalta la peculiarità tutta italiana di coniugare felicemente civiltà e valori virili. Ma è nella chiusura del suo accorato appello che apre agli ancora imprevisti e imprevedibili scenari futuri, quando auspica che “ … ognuno di noi sappia, per sé e per tutti, romanamente fare e patire”.

E' certamente vero che già l'impresa di Libia era stata presentata come riappropriazione di una sponda del Mediterraneo che era stata felicemente parte dell'Impero Romano (una sponda che solo tornando nell'alveo di quella tradizione avrebbe potuto ritrovare quei momenti), ma il richiamo finale, e per questo ancora più importante perché destinato a rimanere maggiormente impresso nel lettore-ascoltatore, si presenta come importante e innovativo: la lotta in corso si presenta, allora, non più o non solo come conclusione del processo di unificazione nazionale avviato a metà del secolo precedente, ma come primo passo di un percorso che avrebbe dovuto riportare il Paese ai fasti del passato facendolo diventare (o ridiventare) principale potenza Mediterranea (e non solo).

Sappiamo che di lì a pochi anni i richiami alla romanità intesa, guarda caso, come capacità di coniugare civiltà e forza saranno alla base di quella rivoluzione fascista che fu, prima che politica, proprio culturale.

5. Andando oltre

Ogni suggerimento di letture e di navigazione web sull'argomento “Grande guerra” si presenterebbe come del tutto parziale. Ci permettiamo, quindi, di orientare verso testi e siti in alcuni casi un po' fuori dal coro e in grado, se adeguatamente affrontati, di integrare e comprendere meglio il senso del nostro intervento e delle parole di Comandini.

Per quanto riguarda i testi, suggeriamo:

  • H. Strachan, La Prima Guerra Mondiale. Una storia illustrata, Mondadori, 2005

  • E. Traverso, la violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, 2001

  • E. Traverso, A ferro e fuoco, il Mulino, 2007

  • S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Einaudi, 2002

  • N. Labianca, Caporetto. Storia di una disfatta, Giunti, 1997

  • H. Kilian, Attacco a Caporetto, LEG, 2005


Quanto ai siti, suggeriamo di visitare:

  • http://www.cimeetrincee.it/

  • http://www.worldwar1.com/

  • http://www.canadiangreatwarproject.com/index.asp

  • http://www.art-ww1.com/gb/index2.html

  • http://www.historial.org/

  • http://www.lagrandeguerra.net/

  • http://www.greatwar.nl/

  • http://wwar1.blogspot.com/

  • http://www.i-a-1915-1918.com/

  • http://www.bbc.co.uk/schools/worldwarone/

Un'ultima annotazione che spiega il titolo del presente intervento: la famosissima "Canzone del Piave" nella sua prima stesura, in riferimento ai fatti di Capretto, recitava "Ma in una notte triste si parlò di tradimento", in ossequio alla versione ufficiale che attribuiva al tradimento di alcuni reparti la causa della rotta generale. In seguito, durante il Fascismo, la frase venne sostituita con quella che ancor aggi viene cantata, cioè "Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento" così da restituire la verità storica al fatto.

Previous page: Il Risorgimento, immagini 1848  Pagina seguente: "La Spagnola", 1918