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31-05-2013

Didattica con gli archivi per la storia locale.
La scuola in archivio e l’archivio a scuola per raccontare storie di vita passata.
Il progetto del Sistema Bibliotecario di Dalmine, con il contributo economico della Regione Lombardia, ha coinvolto alcune scuole medie (anno scol. 2012-2013).

18-06-2012

"La banda di Sforzatica, 1922-2012" a cura di Claudio Pesenti, Valerio Cortese ed Enzo Suardi

31-10-2011

L'emigrazione in Italia e a Mozzo dai documenti dell'archivio comunale

29-10-2011
Pubblicate online le mappe napoleoniche
17-09-2011
"Dalmine: dal leone al camoscio. Storia di cinque comuni e uno stemma" a cura di Claudio Pesenti, Valerio Cortese ed Enzo Suardi
11-10-2010
relazione Giovanni Da Lezze
sui Comuni dell'area di Dalmine nel 1596, a cura di Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani, Bergamo, 1988
 

La scuola nel primo Ottocento a Mozzo

A scuola, a scuola: l’istruzione a Mozzo nel primo ‘800

1. Il contesto generale

L’arrivo dei Francesi in Italia portò grandi mutamenti nella politica dell’istruzione. Risale, infatti, al 1797 l'istituzione di una commissione incaricata di formulare un "Piano generale di pubblica istruzione per la Repubblica Cisalpina" il quale prevedeva, tra l'altro, l'accentramento nello stato di ogni attività di pubblica istruzione. Sulla scia di tale intervento, durante il periodo napoleonico la pubblica istruzione, sia di base sia di livello superiore, conobbe un certo sviluppo grazie anche alla "Legge relativa alla pubblica Istruzione" del settembre 1802, il primo esempio di intervento statale in questo campo. La legge fu un momento importante nella storia dell’istruzione lombarda, dedicava all’istruzione elementare gli articoli 35-40 ma aveva il limite di non considerare l’istruzione femminile “… affidata alla decretazione regia e ai provvedimenti ordinari della Direzione Generale della Pubblica Istruzione” (Raponi, le carte e gli uomini).

Sino a quel momento, l’istruzione non aveva trovato, negli stati italiani preunitari, interventi organici che attribuissero al pubblico l’onere di provvedere all’istruzione dei cittadini. I casi documentati di istruzione “popolare”, infatti, sono relativi a interventi locali spesso attivati in conseguenza di legati testamentari (è questo ad esempio il caso di Gandino). Fa eccezione in parte la Lombardia austriaca, dove era stata applicata, anche se solo parzialmente, la legge voluta da Maria Teresa nel 1774. Solo nel periodo napoleonico, quindi, l’idea di un’istruzione di base pubblica, gratuita e obbligatoria prese piede.

L'Austria estese nel regno Lombardo - Veneto il proprio sistema scolastico, organizzato sull'esempio di quello prussiano. Il regolamento del 7 dicembre 1818 delineava l'istruzione offerta da tre tipi di scuole:
- le scuole elementari minori (due anni, a carico delle casse comunali);
- le scuole elementari maggiori (tre anni per le femmine, quattro per i maschi, a carico dell'erario);
- le scuole elementari tecniche (attivate non prima di dieci anni, destinate ai maschi e a carico dell'erario).

L'istruzione elementare era obbligatoria dai sei ai dodici anni, anche se non di rado le amministrazioni comunali, per le quali pesante era l'onere di provvedere alle necessità economiche (reperimento degli spazi, arredamento, corresponsione degli stipendi agli insegnanti), cercavano di non ottemperare a quanto previsto dalla legge (come vedremo anche nel caso del nostro territorio). La possibilità, inoltre, di estendere fino a cento il numero di alunni per ogni classe rendeva evidentemente difficile e dalla scarsa valenza didattica il lavoro degli insegnanti.

Due fra le novità positive del regolamento furono l'estensione ai dodici anni dell'obbligo scolastico (soprattutto se si pensi che il regno d'Italia indicò in seguito in tre soli anni l'obbligo) e il coinvolgimento femminile. Tale coinvolgimento si esplicò sia sul piano della fruizione dell'istruzione, sia su quello dell'insegnamento: per la prima volta, infatti, si riconobbe alle bambine il diritto all'istruzione e alle donne il diritto all'insegnamento.

Le scuole minori venivano attivate dove esisteva una parrocchia, ma almeno 50 ragazzi in età. Dove ce n'erano meno, era possibile la collaborazione fra più comuni. Se gli scolari erano più di 100, si sarebbero dovute attivare due scuole minori. Oltre tale numero il maestro avrebbe dovuto avere l'ausilio di un assistente, di due sopra i 200 scolari.

Obiettivi della prima classe erano leggere e scrivere correttamente, addizione, sottrazione, catechismo. Della seconda pronuncia, ortografia, calligrafia, moltiplicazione e divisione anche con decimali, la regola del tre con calcolo decimale, ragguaglio vecchie e nuove misure, catechismo, prime regole di composizione.

In genere l'orario era di 22 ore la settimana in genere due al mattino e due e mezza al pomeriggio. Erano ammessi bambini con più di 6 ani e meno di 14, vaccinati contro il vaiolo.

Fondamentale per la storia della pubblica istruzione in Lombardia e in Italia fu la cosiddetta legge Casati, così chiamata dal nome del ministro che fortemente volle una completa riorganizzazione del sistema della pubblica istruzione. La legge, entrata in vigore il 1° gennaio 1860, estendeva alla Lombardia, rivedendola, la legislazione piemontese in materia di istruzione. Essa rimase in vigore, nelle sue linee fondamentali (e anche se nelle intenzioni del legislatore doveva avere finalità di unificazione amministrativa delle sole province piemontesi e lombarde) fino alla legge Gentile del 1923 e quindi improntò l'istruzione pubblica nel nuovo Regno d'Italia per oltre sessant'anni.

La legge organizzava anche la pubblica istruzione attraverso una bipartizione di responsabilità, affidate ad una amministrazione centrale e ad una locale.

Nel campo dell'istruzione primaria la legge prevedeva due gradi di insegnamento: l'inferiore e il superiore, ciascuno di due anni a ciascuno a sua volta diviso in due classi distinte.

Le scuole di grado inferiore dovevano essere attivate in ogni comune, quelle di grado superiore in ogni comune con più di 4000 abitanti. L'insegnamento primario era gratuito e obbligatorio almeno al grado inferiore. Da questo punto di vista la legge segnò un arretramento rispetto al precedente esempio austriaco che, come abbiamo visto, stabiliva l'obbligatorietà per sei anni di scuola.

Novità importante riguardò l'insegnamento femminile, dato che per la prima volta fu previsto l'insegnamento delle maestre anche nelle scuole elementari maschili. Per la preparazione dei maestri furono inoltre organizzate trenta scuole "Normali", finalizzate alla formazione del personale docente. Dopo due anni di corso, l'allievo poteva sostenere l'esame di patente per insegnare nel corso elementare inferiore; alla fine del terzo anno si poteva presentare all'esame per la patente del corso superiore.

La legge Casati evidenziava anche forti limiti:
- impossibilità pratica di dar corso concreto all'obbligo scolastico data la situazione economica spesso deficitaria dei comuni ai quali era confermato l'onere di provvedere ai locali e alle spese per gli insegnanti;
- forte accentramento dei servizi con la conseguente uniformità di indirizzo;
- difficile convivenza a livello locale fra provveditori e ispettori;
- scarso peso dato all'alfabetizzazione degli adulti, fondamentale in un paese con un tasso medio di analfabetismo al suo nascere stimato nel 75% con punte del 90% nelle regioni meridionali;
- incertezza sulle sanzioni contro chi non rispettasse l'obbligo scolastico.

La legge Casati venne in parte rivista sei anni più tardi dalla legge Berti, che a sua volta venne ridisegnata nel 1877 dal nuovo ministro Coppino, che orientò l'organizzazione scolastica nuovamente verso un forte controllo centralista e stabilì, tra l'altro, l'obbligo dell'istruzione fino ai nove anni. Si trattava di un piccolo passo in avanti rispetto alla precedente legislazione, del tutto insufficiente considerato che paesi quali la Germania, la Norvegia e l'Inghilterra avevano già stabilito in otto anni la durata dell'obbligo scolastico. in pratica l'Italia si trovava a far meglio solo di Spagna e Portogallo.

La legge Coppino del 1877 introdusse una quinta classe del corso elementare (ora diviso in un corso inferiore di due anni ed in uno superiore di tre), sostituì l'istruzione religiosa con "prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino" e introdusse l'obbligo per gli alunni che avessero frequentato il corso elementare inferiore di frequentare per un anno le scuole serali nei comuni dove erano state istituite. Inoltre, ai ricostituiti provveditorati venne attribuito il controllo sull'istruzione elementare.

L'analfabetismo, anche grazie alla nuova legge, diminuì (dal 75% del 1861 al 48% del 1901) mentre fortemente incrementato fu il numero delle scuole, dalle 1700 circa per 1.700.000 alunni del 1871 alle 2700 circa con 2.700.000 alunni del 1901.

Maestre e maestri

Lo stipendio

Per inquadrare la figura del maestro elementare nell’Ottocento, è necessario concentrare l’attenzione su aspetti quali la sua condizione economica e la sua posizione sociale.

L’insegnante dell’ancien règime era tradizionalmente pagato dagli studenti e le autorità intervenivano di tanto in tanto per integrare il reddito del maestro, fornendogli i locali dove viveva e insegnava. A causa delle fluttuazioni stagionali della frequenza dei ragazzi, il maestro subiva delle variazioni di stipendio disastrose e nei piccoli villaggi le condizioni erano anche peggiori: il numero dei ragazzi era così esiguo che nessun maestro avrebbe potuto sopravvivere con il solo contributo dei privati.

Le autorità comunali incominciarono perciò ad accollarsi una parte o l’intero stipendio, sia per attenuare i rischi connessi con quella forma di retribuzione, sia per favorire la diffusione della scuola anche nelle regioni più povere e meno popolate. In Italia, a partire dai primi anni dell’Ottocento, lo stipendio del maestro fu pagato sempre più spesso dalle autorità, anche se la forma mista sopravvisse, in alcuni casi, fino alla metà del secolo.

Con la costituzione del Regno d’Italia le forme di salario misto furono completamente abbandonate e i maestri pubblici furono retribuiti con fondi comunali, integrati, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, da contributi dello stato e , talvolta, in natura1.

Gli stipendi però rimasero, per tutto il secolo e in tutte le regioni, decisamente modesti. Le retribuzioni offerte nella prima metà del secolo fecero talvolta andare deserti i concorsi. In altri casi invece i concorsi erano assai frequentati in quanto, data la povertà del Paese e la difficoltà di trovare occupazioni più remunerative e la facilità con cui si poteva ottenere la patente di maestro pubblico o privato, vi era sempre qualcuno disposto ad accettare lo stipendio più meschino.

Nel periodo che va dal Congresso di Vienna all’unità, gli stipendi si mantennero inalterati o fecero registrare qualche lieve miglioramento.

Dopo l’Unità, però continuò la pratica della contrattazione individuale fra maestro e autorità comunali che, in materia di stipendi, e non solo, ignoravano deliberatamente le disposizioni della legge Casati.

Nei due decenni successivi all’unificazione il numero degli insegnanti che percepiva stipendi inferiori al minimo legale fu molto elevato, e questo anche nelle regioni dove meno lo si sospetterebbe. Gli stipendi più miseri però furono gradualmente eliminati, di conseguenza il livello medio aumentò sia in termini monetari che in termini reali.

La legge Casati divideva le scuole elementari in urbane e rurali, ciascuna con tre classi “secondo l’agiatezza del Comune e la popolazione dei luoghi”. A ciascuna di queste ripartizioni corrispondeva uno stipendio diverso per gli insegnanti, e poiché gli stipendi delle maestre erano inferiori di un terzo a quelli dei maestri, si avevano 24 stipendi diversi.

La distinzione fra le scuole superiori e inferiori fu eliminata soltanto con la legge n° 407 dell’8 luglio 1904; i livelli di stipendio si ridussero così a 14.

A Torino, Milano, Genova e Napoli le condizioni dei maestri erano migliori di quelle dei loro colleghi di campagna anche se il costo della vita era molto più alto. Le autorità per tutto il secolo XX lesinarono gli aumenti di stipendio di fronte al duplice vincolo del bilancio statale e dei bilanci comunali. In questo modo era inevitabile che la qualità professionale dei maestri scadesse nei piccoli comuni: un buon insegnante cercava un posto di lavoro in un comune che pagava bene e lasciava i posti nei comuni poveri ai colleghi meno dotati e fortunati.

Le condizioni economiche dei maestri migliorarono ulteriormente e gli stipendi inferiori al minimo legale furono limitati alle scuole irregolari (aperte, cioè, soltanto alcuni mesi all’anno), ed alle scuole non classificate.

Il tenore di vita.

Fino agli anni '70 la retribuzione di un maestro di scuola non si discostava molto da quella di un operaio o di un artigiano. Talvolta poteva anche essere superiore, ma nella stragrande maggioranza dei casi non raggiungeva il salario annuo di un operaio qualificato.

Nel decennio successivo all’unificazione, nonostante gli abusi ai quali si è accennato, la condizione economica dei maestri incominciò a mostrare i primi sintomi di progresso. Anche i maestri rurali avevano ormai uno stipendio pari a quello di un operaio medio, mentre gli insegnanti meglio retribuiti dei grandi centri urbani lo superavano di un buon 40-50%.

Il confronto torna invece tutto a svantaggio dei maestri quando si prende come termine di paragone la retribuzione degli impiegati pubblici, dato che un modesto impiegato guadagnava più di qualsiasi maestro:

Stipendi di alcuni impiegati statali e stipendi dei maestri

Anno - Applicato - Commesso - Inserviente -  Maestro urbano -   Maestro rurale
1872       1.680         1.550              950            700-1.200            500-800
1888       2.380         1.980           1.350            900-1.320            700-900
1903       2.150         2.050           1.250          1.140-1.350         900-1.000

Resta da affrontare un ultimo problema. Se escludiamo i casi in cui lo stipendio rappresentava semplicemente un’indennità pagata a chi, oltre al proprio mestiere, faceva anche il maestro (come nel caso del maestro e segretario comunale di Paderno d’Adda Alfonso Piciotti), come possiamo spiegarci la persistenza, per più di un secolo, di un livello salariale che, nel suo insieme, non si differenziava molto da quello di un operaio qualificato, e che era invece in netto contrasto con una funzione che lo Stato riteneva tanto delicata e tanto importante? Una spiegazione ci è offerta dall’economista inglese Adam Smith. Seguendo la sua analisi siamo indotti a pensare che il tempo libero (che significava anche la possibilità di redditi supplementari), la regolarità dell’impiego e la certezza di conseguire il guadagno previsto, possono spiegare la persistenza di retribuzioni che, confrontate con quelle di altri lavoratori, ci sembrano inadeguate.

Il primo significativo miglioramento salariale per i maestri si ebbe con la legge n° 3250 del 9 luglio 1876, che aumentava gli stipendi del 10%; il massimo stipendio divenne quindi di 1320 lire.

La successiva legge n° 3798 dell’11 aprile 1886 aumentava tutti gli stipendi tranne quello del maestro urbano di prima classe superiore. La maestra di terza classe riusciva a raggiungere uno stipendio di 560 lire, mentre lo stipendio più elevato, nei comuni con più di ottantamila abitanti, raggiungeva le 1500 lire.

Se gli stipendi non aumentarono al punto da adeguare l’offerta alla domanda, aprendo la via a quella che sarà definita “crisi magistrale”, ciò fu dovuto all’intervento di un terzo fattore: la rigidità della spesa pubblica. La spesa dello stato e degli enti locali era compresa entro margini molto modesti per due serie di ragioni: da una parte, la povertà della popolazione ed il lento sviluppo del reddito nazionale rendevano quanto mai problematico ogni ulteriore inasprimento fiscale; d’altra parte, la convinzione che il pareggio del bilancio fosse un principio inderogabile a meno di eventi eccezionali, poneva un limite difficilmente valicabile all’espansione della spesa pubblica.

La crisi magistrale investì quasi esclusivamente l’ambiente rurale mentre in città il numero dei maestri eccedeva non di rado la domanda; questo non si spiega interamente con la differenza degli stipendi fra le due aree, differenza che era in gran parte annullata dal minor costo della vita nelle campagne. Ai motivi economici si sovrapposero, probabilmente, altre considerazioni, il confronto della vita in città e il maggior prestigio sociale di cui godeva il maestro nell’ambiente urbano tradizionalmente più colto, ebbero un peso determinante.

La figura del maestro

Di norma, nella nostra società il maestro di scuola non ha mai goduto di una posizione particolarmente prestigiosa2. Il prestigio sociale di una professione è strettamente legato al suo grado di specializzazione e all’idea che nella società vi siano pochi talenti in grado di esercitarla. A differenza degli altri professionisti, gli insegnanti elementari non hanno mai detenuto il monopolio dell’ammissione nei loro ranghi.

Dal punto di vista del suo status sociale, la storia del maestro elementare italiano nell’Ottocento è soprattutto la storia della progressiva (anche se non ancora totale) emancipazione da questa condizione inaccettabile.

All’inizio dell’Ottocento era quasi impensabile che un maestro potesse mantenere la propria famiglia con il guadagno derivante dal solo insegnamento. In molti casi quella di maestro era una professione accessoria mentre, nell’opinione popolare, la figura del maestro tendeva ad assumere inevitabilmente i contorni tipici dell’attività svolta in via principale. In altri termini, il maestro di scuola non aveva un ruolo sociale ben definito.

La condizione del maestro di campagna era oggetto di generale commiserazione: “Le magre misure degli onorari de’ maestri, produssero i più ridicoli maestri del mondo. Rozzi e sporchi calzolai io conosco che esercitano nelle campagne il magistero”. Questo è ciò che scriveva un commissario distrettuale del Regno Lombardo Veneto nel 1849.

La professione del maestro incominciò a presentarsi sotto una luce diversa quando l’intento di dare ai membri di tutti i ceti sociali un’istruzione di base si tradusse in un progetto ben definito.

In realtà, la legge Casati era ispirata al lodevole intento di sottrarre il maestro alla soggezione del parroco del villaggio e al controllo intollerante dell’autorità ecclesiastica3, ma finì per porlo in una situazione altrettanto inaccettabile, mettendolo in balia delle autorità comunali che potevano disporre arbitrariamente il suo licenziamento o la sua riconferma. La nuova legge riconosceva al maestro un posto ben definito all’interno del sistema scolastico, creando le premesse per la formazione di un corpo insegnante omogeneo e professionalmente ben qualificato, ma non accordava ancora garanzie adeguate. Il maestro, infatti, si trovava, talvolta, in una condizione più precaria di prima, e si vedeva costretto a subire ricatti di ogni genere. Infatti spaventandolo con la parola licenziamento, alcuni comuni giunsero ad estorcere ai maestri una dichiarazione scritta, colla quale li si faceva rinunciare all’aumento di stipendio che in forza della legge stessa loro sarebbe spettato!

I disagi morali e materiali sopportati da chi era costretto ad insegnare per tutta la vita nei villaggi più poveri e nelle zone impervie, condussero alla situazione paradossale che abbiamo già ricordato: i maestri si affollavano nelle città, dedicandosi non di rado ad altre occupazioni, piuttosto che rassegnarsi ad accettare l’insegnamento nei piccoli comuni. Infatti, i maestri rurali, che costituivano quasi i 4/5 del totale, continuavano ad essere reclutati fra i membri dei ceti sociali più umili, con danno evidente per il loro prestigio e per la loro indipendenza. La figura del maestro elementare alla fine assunse comunque caratteristiche ben definite che si riassumevano, in primo luogo, nella specializzazione della sua professione. Anche agli occhi della gente comune, il maestro aveva ormai acquisito una funzione ben determinata, quella di educatore. La specializzazione professionale e lo “spirito di corpo" tendevano ad accrescere la coesione all’interno del corpo insegnante. Dal punto di vista della status sociale, però, il maestro di scuola non godeva sempre di una reputazione superiore a quella di un artigiano o di un piccolo commerciante che non poteva essere assolutamente paragonata al prestigio che circondava le professioni liberali di più antica tradizione. La scuola dava la possibilità di guadagnarsi la vita, ma non dava né onori né ricchezza.

Le maestre.

Fra i meriti del regolamento del regno Lombardo - Veneto del 1818 va senza dubbio segnalato il fatto di considerare le bambine degne di ricevere un’istruzione e di avviare anche concretamente la creazione di scuole femminili. Anche per le bambine la scuola non si presentava solo con lo scopo di fornire un’istruzione, ma con finalità (forse principali) morali, di formare in primo luogo mogli e madri esemplari affinché le bambine imparassero “la costumatezza, la decenza e il contegno che si conviene a persone ben educate”.

Altra conseguenza fondamentale del regolamento fu la creazione di una nuova figura professionale, femminile, la maestra elementare al servizio dello Stato e pagata da finanze pubbliche (locali). Si pensi che prima di questa data, alle donne non era consentito l’ingresso della pubblica amministrazione, né a livello statale né locale.

Risultando la scuola non solo ambito di mera istruzione ma essenziale veicolo di controllo sociale, si rese necessario organizzare al meglio la formazione del corpo docente. Questo, però, riguardò solo i maestri, per le maestre infatti non venne organizzato un corso di metodica e la preparazione fu lasciata all’iniziativa della candidata al posto. Lo Stato si limitava a verificare le conoscenze acquisite in un esame di abilitazione: tale prova si limitava a verificare una buona pronuncia, una bella calligrafia, il sapere leggere in modo chiaro e spedito, il conoscere la scrittura corrente italiana, l’ortografia, la grammatica, l’aritmetica, e i principi per esprimere per iscritto i propri pensieri. A questo si aggiungeva una buona conoscenza dei principi della religione cristiana, anche se l’insegnamento di quest’ultima era affidato al parroco locale. La maestra, però, doveva ripetere la lezione del parroco.

Tra le materie figuravano anche i lavori femminili per i quali la candidata sarebbe stata esaminata da una donna, di norma la direttrice o la maestra principale di una scuola pubblica. Per arrivare preparate all’esame, le candidate di norma rimanevano presso le scuole elementari frequentate in qualità di “alunne benemerite”.

Da subito emerse la difficoltà di reperire personale sufficientemente qualificato. Si rispose facilitando l’esame di abilitazione (invece di preparare meglio le candidate).

La figura della maestra doveva, inoltre, essere al di sopra di ogni sospetto, il suo contegno in classe (e soprattutto fuori) era regolarmente controllato dal parroco locale e dall’ispettore distrettuale (e dalla comunità).

La maestra era valutata da rapporti periodici del direttore della scuola, rapporti che fornivano la base per la relazione finale dell’ispettore scolastico. In caso di mancanze, il direttore era tenuto ad un primo richiamo “amichevole”, al quale poteva seguire un’ammonizione con relativo rapporto all’ispettore. Questi si doveva recare a parlare con la maestra e eventualmente poteva sospenderla dal servizio e, nei casi più gravi, denunciarla alle autorità locali (dalle quali dipendeva). In caso di carenze nella formazione, il direttore coinvolgeva l’ispettore che valutava la maestra. Nel caso tali carenze fossero gravi veniva chiamato in causa l’ispettore capo che poteva rimuovere la maestra4.

Le maestre potevano insegnare appena ricevuta la patente d’insegnamento, quindi molto giovani. In teoria l’insegnamento non era praticabile prima dei vent’anni, ma erano permesse deroghe e si invitavano spesso le aspiranti maestre ad operare in qualità di praticanti gratuite. Le praticanti assistevano gratuitamente le maestre titolari, e tale attività risultava uno dei requisiti preferenziali in occasione dei concorsi. La pratica gratuita spesso era inframmezzata da supplenze retribuite, a formare un utile mix in vista del lavoro stabile. Liberandosi posti dove si faceva pratica, la praticante risultava privilegiata per ricoprirli. Con patente di abilitazione e più di 20 anni ci si poteva proporre per un posto di assistente stipendiata o di maestra effettiva. L’assistente in genere si occupava della prima classe delle scuole minori, quando le alunne superavano il numero di 100, o della prima delle due classi delle scuole maggiori. Dato che l’assistente operava su classi formate a causa del numero particolare di alunne, la nomina risultava temporanea e limitata all’anno in corso. Lo stipendio era comunque minore di quello della maestra titolare. La normativa dei concorsi non prevedeva veri e propri concorsi ma solo l’esame degli attestati forniti:

  • fede di nascita
    attestato di buona salute
    patente di idoneità
    attestato dei servizi già forniti
    eventuale certificato di matrimonio

Una volta espletate le formalità, la nuova maestra veniva convocata dall’ispettore distrettuale o provinciale per prestare il giuramento di fedeltà, documento assai interessante per cogliere il senso della professione:

Ella giurerà all'Onnipotente Iddio e prometterà sul suo onore e fedeltà all'Augustissimo e Potentissimo Principe e Signore Ferdinando Primo per la Grazia di Dio Imperatore d'Austria […] come legittimo ereditario Sovrano e Signore e dopo di Lui alli suoi Eredi e successivi procedenti dal Suo Sangue, e prosapia, di essergli fedele ed obbediente, intenzionata e pronta altresì ad adempiere gli obblighi propri della incombenza a lei affidata esattamente ed a norma dei vigenti regolamenti promovere con tutte le sue forze la coltura dello spirito ed i progressi nell'arte che ella è destinata ad insegnare; osservare attentamente i loro costumi, prendere tutte quelle misure che vaglino a migliorare, conservare e promuovere la loro moralità, precedendo col buon esempio della propria condotta sì nella scuola, che fuori della medesima, animare nelle scolare l'attaccamento verso il Sovrano e la Patria, trattarle nella pubblica istruzione e particolarmente negli esami e nelle classificazioni egualmente senza riguardo alla facoltà, al rango, all'autorità dei loro genitori, tutori, o parenti, non lasciandosi rimovere per mezzo di regali dallo stretto adempimento dei doveri di un Maestro, e rigettando con fermezza ogni tentativo di seduzione. Dovrà ella inoltre giurare di non appartenere a veruna Società Segreta, proibita, o fratellanza, né in patria né all'estero, e che mai sarà per entrare in veruna simile società o fratellanza.

La nomina era considerata provvisoria per ben tre anni, al termine dei quali diventava, se non fossero emersi problemi, definitiva. La richiesta in tal senso veniva mossa dall’interessata all’ispettore distrettuale e da questi a quello provinciale.

In caso di concorso veniva, di norma, preferito chi aveva studiato in una scuola elementare pubblica o privata, chi poteva attestare la propria moralità, chi aveva già lavorato in qualità di maestra, chi era (preferibilmente) di mezza età; nelle scuole maggiori l’incarico andava di norma a persone con almeno trent’anni. Si preferivano, inoltre, vedove e nubili.

La carriera si orientava verso il passaggio alle scuole maggiori, ma in campagna, dove queste non c'erano, si cercavano posti meglio remunerati, dato che i comuni potevano in pratica stabilire stipendi a loro piacimento. Anche i minimi stabiliti potevano, infatti, essere frequentemente aggirati per esigenze di bilancio. Le maestre, comunque, a parità di situazione percepivano meno dei maestri, in genere metà del loro stipendio.

Chi si dedicava alla professione di maestra era di norma giovane, nubile, di modesta estrazione sociale e in possesso di quella cultura elementare sufficiente per superare l’esame di abilitazione. Ci si rivolgeva verso tale professione non tanto per lo stipendio, quanto perché si trattava comunque di un impiego, alla fine, stabile.

Se i maestri erano trattati “come servitori” dalla legge Casati, le maestre come sempre erano le meno favorite: “Se poi trattasi di maestra, chi non vede a quale alternativa possa essa venir condotta dalla condizione che le vien fatta dalla legge? Si dirà che tali emergenze non sono punto frequenti; sia pure, ma la legge le rende possibili”.

E’ uno dei tanti documenti sugli aspetti “sessuali” della questione scolastica in quanto aspetto della questione femminile. Questi aspetti sessuali riguardano sia l’educazione delle bambine sia la condizione delle donne che insegnavano. Le varie inchieste documentano l’avversione delle famiglie a mandare le figlie a scuola, specie nel sud: i genitori “in quei climi ardenti e molli temono di mandare le figlie fuori di casa, temono che la perizia nel leggere e nello scrivere sia per esse occasione e stimolo a nutrire d’insalubre pascolo l’immaginazione, ed all’intavolare e fomentare non approvate corrispondenze”.

Spesso l’istruzione femminile era tollerata solo se si riduceva al catechismo e ai lavori “donneschi”. Infatti si raccomandava continuamente che le maestre imparassero a far bene questi lavori per poterli insegnare alle bambine e alle adulte. Per la scuola normale vi erano veri propri corsi di taglio, cucito a mano e macchina, maglia, rattoppi e rammendi. Il programma aggiungeva che nelle normali femminili, dove le allieve “sono occupate nei lavori del loro sesso”, era meno utile un insegnamento di lavoro educativo.

Il dibattito sull'istruzione.

L'istruzione fu, sin dall'Unità, ambito di discussione e scontro anche acceso fra diverse impostazioni. Nelle poche righe che seguono abbiamo voluto condensare alcuni spunti che dimostrano in certi momenti l'attualità di talune affermazioni e posizioni.

Al momento dell'Unità, al contrario di quanto pensava Casati, un altro deputato sosteneva che “l’insegnamento delle scuole magistrali si limitasse a quella sfera in cui deve essere circoscritto; perché, succedendosi i capi dell’amministrazione della pubblica istruzione, non venisse per avventura loro il talento d’alzare il livello dell’istruzione dei maestri primari, per farne diffonditori di un’eccessiva istruzione generale, più ampia e più diffusa”.

Il maestro avrebbe avuto solo “qualche condizione in più di quella che egli deve impartire ai suoi allievi”: il maestro non doveva sapere troppo affinché il popolo non sapesse troppo!

Nel 1877 era ancora ben viva la concezione della necessità di scuole diverse per le varie classi e ceti. La troviamo espressa in un testo di Francesco De Sanctis, celebre storico della letteratura e a varie riprese ministro della Pubblica Istruzione:

Dare a tutti gli ordini sociali la medesima istruzione non è solo vanità, ma danno: ché un’istruzione superiore al bisogno ed al proprio stato alimenta disordinati desideri, desta passioni che non si possono soddisfare, rende inquieti e scontenti, e nutre di ambizioni, di vanità e di superbia i nostri animi. Ma vi è un’istruzione necessaria a tutte le classi, ordinata a darci una chiara coscienza della nostra dignità e de’ nostri poveri, ed a formare la ragione pubblica, che tempri e regga i moti inconsulti dell’animo, e dia all’opinione un indirizzo costante e sereno”.

Detto sinteticamente: “Istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può”; così si espresse il ministro Baccelli nella relazione al Re premessa ai programmi elementari del 1894.

Formare una popolazione, per quanto sia possibile, istruita ma principalmente onesta, operosa, utile alla famiglia e devota alla patria e al Re”

è quanto scriveva Coppino in una circolare aggiungendo:

Consideriamo bene che la scuola primaria i figliuoli del popolo debbano ritrarre conoscenza ed attitudini utili alla vita reale delle famiglie e de’ luoghi, e conforto a rimanere nella condizione sortita dalla natura, anziché incentivo ad abbandonarla”.

Nella relazione redatta nel 1888 dalla commissione nominata dal ministro dell’Istruzione, si giunse a indicare nel lavoro lo strumento per avvicinare la scuola alle abitudini, al tenore di vita e alle necessità popolari:

Dalla scuola infatti qual’è oggi [l’uomo del popolo] sarà distolto per sempre dalla condizione sua, nei casi ordinarii con danno proprio e con quello della società, in cui è già soverchio, per non dire, pericoloso, il numero di coloro che cercano pane dalla coltura, o vi ritornerà tardi, disingannato, infiacchito dalla desuetudine del corpo alla fatica e con tutt’altro ordine di pensieri e altre disposizioni d’animo da quelle confacenti al suo stato. In conclusione la scuola ne avrà fatto uno spostato di più disutile a sé stesso a agli altri, o un operaio incapace, pretenzioso e malcontento”.

Di diverso avviso erano altri uomini politici. Ad esempio, l’onorevole Fambri sosteneva che l’istruzione non era dannosa per la moralità, ma che, al contrario, la non istruzione creava dei “malviventi”. Disse, infatti, Fambri: “Quella istruzione che dà dei lumi e non delle pretensioni, e che lascia sulle spalle dell’operaio e dell’agricoltore la giacchetta, e sulle mani i suoi santi calli, è per tutti, dico indistintamente per tutti i rispetti, l’onore, la redenzione del paese”.

Sempre nel 1888, Sidney Sonnino5 affrontava il problema delle rivolte contadine affermando che si trattava di un segno da non trascurare; e più si fosse istruita la classe dei contadini, più chiara coscienza essa avrebbe acquistato della sua condizione. Altri dicevano che l’istruzione senza educazione poteva essere dannosa, mentre se era educativa disciplinava la mente, abituava all’ordine, comprimeva le passioni, fortificava e purificava la volontà.

Il direttore generale del ministero della pubblica istruzione Ravà pensava che la scuola dovesse

fornire agli alunni, in un ambiente propizio, l’istruzione che si conviene per formare, non degli eruditi, ma dei giovinetti bene addestrati nell’uso pratico della lingua e del conteggio, non ignari delle cognizioni più necessarie nella vita, avviati con opportuni esercizi al lavoro delle officine e dei campi, educati all’amore della patria e a civili virtù”.

Un passo della circolare ministeriale n° 181 del 20 ottobre 1907 recita:

è necessario... che la quinta e la sesta classe siano didatticamente ordinate in guisa da assumere la fisionomia propria di un istituto esclusivamente destinato alle classe lavoratrici, e che gli insegnamenti di impartirsi, per i contenuti e per i metodi, corrispondano a bisogni peculiari del paese e si adattino alle condizioni del popolo, in ciascun comune italiano”.

L’istruzione era stata definita da Francesco De Sanctis nella seduta della Camera del 23 gennaio 1874 una questione d’ordine pubblico, d’interesse pubblico, come l’amministrazione della giustizia, la guerra, la marina, come tutti i servizi pubblici. Era una funzione dello Stato, il quale non poteva limitarsi a vigilare e consigliare ma doveva organizzare e dirigere.

Era un punto di vista che coincideva con quelli delle classi dirigenti postunitarie nel suo nucleo centrale di affermazione che la scuola era una grande funzione nazionale. Il disegno generale della borghesia italiana era l’alfabetizzazione del popolo come mezzo di diffusione di un modo di pensare, come strumento di egemonia.

Alla legge Coppino, secondo alcuni, mancava “il concetto intrinseco della scuola popolare, che vuole essere di molti anni, cioè fra i 6 e gli 8, in guisa che gli abiti intellettuali e morali che ingeneri rimangano acquisii per la vita, e vuol essere per ogni riguardo distinta da qualunque altra maniera di scuole, perché non riceva la norma del suo programma e del suo indirizzo dal disegno del coordinamento ai gradi di una cultura superiore (ma le mancava) il congegno amministrativo facile, pronto, congruo, efficace, di cui c’è bisogno perché l’obbligo non sia e non rimanga enfatica proclamazione. Mancava infine l’organo del governo, che con sicura autorità valga a vincere la resistenza dei corpi locali, e la tiepidezza dei cittadini, che ostacolano il progresso della cultura”.

Secondo molti, il compito del maestro era quello di stare nel popolo, poco sopra il livello culturale delle masse, in una scuola che doveva restare separata; poteva crescere culturalmente e socialmente con il popolo solo per breve tratto. Il maestro doveva educare le masse, ma per mezzo di questa educazione le doveva tenere culturalmente e politicamente depresse.

Gramsci rivolse critiche durissime ai maestri, partendo dalla constatazione della loro inadeguatezza culturale e professionale.

Il principio educativo era il lavoro: “ Il concetto dell’equilibrio tra ordine sociale e ordine naturale sul fondamento del lavoro, dell’attività teorico-pratica dell’uomo, crea i primi elementi di una intuizione del mondo, liberata da ogni magia e stregoneria, e dà appiglio allo sviluppo ulteriore di una concezione storica, dialettica del mondo, a comprendere il movimento e il divenire, a valutare la somma di sforzi e di sacrifici che è costato il presente al passato e che l’avvenire costa al presente, a concepire l’attualità come sintesi del passato, di tutte le generazioni passate, che si proietta al futuro…”.

Per la realizzazione di questo principio educativo occorreva un maestro: “consapevole dei contrasti tra il tipo di società e di cultura che egli rappresenta e il tipo di società e di cultura rappresentato dagli allievi… consapevole del suo compito che consiste nell’accelerare e nel disciplinare la formazione del fanciullo conforme al tipo superficiale in lotta con il tipo inferiore”.

Questa condizione non si realizzò: “che nel corpo dei maestri ci sia la consapevolezza del loro compito e del contenuto filosofico del loro compito, è altra questione, connessa alla critica del grado di coscienza civile di tutta la nazione, di cui il corpo magistrale era solo un’espressione, immeschinita ancora, e non certo un’avanguardia”.

Può sembrare, quindi, non casuale che il Fascismo, il quale affidò compiti significativi al corpo insegnante, vide proprio fra quest'ultimo un ambito di consenso significativo e importante.

2. Il contesto locale.

Purtroppo, l’archivio comunale di Mozzo non conserva documentazione relativa alla scuola e ai maestri che vi insegnarono se non a partire dal 1898. Tutto l’800, quindi, non è documentato anche se altre fonti, alcune delle quali parleremo più avanti, ci dicono che sia prima dell’Unità, sia dopo, anche a Mozzo furono applicate (anche se in parte) le norme relative all’istruzione di base.

3. Il documento

Prima di parlare del documento scelto, facciamo riferimento ad altri conservati all’Archivio di Stato di Bergamo il quale, nel fondo del Dipartimento del Serio conserva alcuni documenti di grande interesse per la storia del’istruzione a Mozzo. Il primo, datato 3 febbraio 1803 (ASBg, Archivio del Dipartimento del Serio, busta 2105) è il verbale della riunione del consiglio comunale di Mozzo che deliberò, fra altre cose, “ … la formazione di una scuola elementare come alla legge 4 settembre”. Si tratta dell’applicazione delle norme stabilite dalla "Legge relativa alla pubblica Istruzione", il primo esempio di intervento statale in questo campo. La legge fu un momento importante nella storia dell’istruzione lombarda, dedicava all’istruzione elementare gli articoli 35-40 ma aveva il limite di non considerare l’istruzione femminile “… affidata alla decretazione regia e ai provvedimenti ordinari della Direzione Generale della Pubblica Istruzione” (Raponi, le carte e gli uomini).

A Mozzo, quindi, nel marzo 1803 si riunirono i 25 membri del consiglio comunale. vale la pena di elencarli: Antonio Mangili e Domenico Sottocornola, deputati amministrativi, Giovanni Battista Bono, sindaco, Angielo Angieloni, Carlo Nava fu Domenico, Giuseppe Cattaneo, Giuseppe Nava, Francesco Esposito, Giulio Bravi, Francesco Battaglia, Antonio Lupini, Carlo Locatelli, Giovanni Locatelli, Giuseppe Gambirasi, Francesco Gambirasi, Francesco Gambirasi, Celestino Carminati, Andrea Nessi, Giuseppe Locatelli, Giovanni Nervi, Giovanni Faconetti, Giovanni Battista Vechis, Carlo Nava fu Celestino, Maffio Nava fu Celestino, Francesco Nava, Giovani Colleoni, questi ultimi consiglieri.

Dopo avere eletto i nuovi amministratori nelle persone di Antonio Lochis, primo municipale, Antonio Mangili, secondo municipale, e Giulio Bravi, terzo municipale, non avendo ancora gli amministratori uscenti preparata la relazione sulla loro attività, si passò al punto dell’ordine del giorno relativo alle scuole. E questo possiamo leggere: “Dimandatosi se nella Comune vi erano doti di privata fondazione a beneficio della scuola, rispose non esservi, quindi si propose l’elezione del Maestro, ed unanimi determinarono di mandare ai voti per la conferma del’attuale Maestro, il Cittadino loro Parroco Andrea Invernizzi, il quale ebbe voti favorevoli numero 22 e contrai numero 3. dal che ne fù definitivamente confermato”.

Come possiamo vedere, a quella data il parroco, Andrea Invernizzi, già svolgeva attività di insegnamento, anche se non è dato di sapere da quando e a che titolo. È possibile che il comune avesse dato seguito alla legge del settembre precedente e ora ne confermasse l’attività. Era piuttosto frequente che i parroci provvedessero all’insegnamento di base dato che erano fra i pochi in grado di saper leggere e scrivere e quindi di poter insegnare.

Il documento che presentiamo, invece, è la proposta da parte del comune alle autorità superiori di aumento dello stipendio del parroco in qualità di maestro. Era piuttosto frequente, infatti, che i parroci provvedessero all’insegnamento di base dato che erano fra i pochi in grado di saper leggere e scrivere e quindi di poter insegnare.

A rivolgersi alla Prefettura del Serio è il Cancelliere del censo di Ponte San Pietro, il funzionario al quale spettava, in età napoleonica (ma anche dopo), il compito di sovrintendere agli affari dei comuni del distretto di cui era responsabile e di fare da tramite fra questi ultimi e le autorità superiori.

In questo caso, il Cancelliere, che si firma col solo cognome Vitali, nel luglio 1809 riferisce a Bergamo che il comune di Mozzo si era rivolto a lui perché il parroco, descritto “… maestro ottimo di quella scuola comunale…” aveva chiesto un’integrazione del suo salario avendo prolungato l’attività didattica per tutto il mese di giugno, ai sensi di una circolare che, evidentemente, estendeva i tempi scolastici rispetto a quanto il comune aveva concordato con il parroco stesso. A giustificare la richiesta del parroco, appoggiata dal Comune, veniva richiamato il fatto che “ … il salario stabilità annualmente dal Consiglio Comunale è assai scarso in confronto della bene eseguita Scuola…”. Il Comune, in verità richiedeva l’autorizzazione ad erogare un aumento inferiore a quanto richiesto dal sacerdote (20 lire contro 30), ma resta comunque il fatto che a sostegno della richiesta comunale il Cancelliere ribadiva “ … le buone ed ottime qualità del ripetuto Signor Maestro… “il quale veniva lodato per “ … la usata premura e diligenza nell’esercizio di detta scuola”.

Non è dato di sapere, purtroppo, se da Bergamo si diede il consenso all’aumento proposto, anche perché il documento seguente, datato settembre, contiene una risposta del Cancelliere alle autorità cittadine relativamente al salario del maestro senza alcun riferimento all’accettazione o meno della richiesta di luglio. Vogliamo, però, ottimisticamente sperare che non si sia negato un modesto aumento a fronte di un servizio di così grande importanza per la comunità.

Del parroco - maestro Invernizzi abbiamo altre notizie più tarde. E’ citato ormai settantenne prestare servizio in qualità di catechista a fianco di una maestra, la trentenne Giulia Vegis, ai 28 bambini che seguivano le lezioni nell’anno scolastico 1821-1822. A quella data le lezioni si tenevano in locali della parrocchia e la maestra prestava il proprio operato gratuitamente (ASBg, archivio della Delegazione Provinciale, busta 607). L’anno successivo troviamo invece il solo Invernizzi (di cui si in dica l’età in 78 anni) prestare servizio come maestro in casa propria, mentre nel 1823 per la prima volta viene segnalata la presenza di locali comunali dove fare scuola. Nel 1824-1825, infine, le lezioni venivano tenute da un giovane maestro, il ventinovenne Carlo Nava, di Mozzo, mentre l’Invernizzi (misteriosamente indicato avente ben 84 anni…) prestava la propria opera in qualità di catechista (ASBg, archivio della Delegazione Provinciale, busta 879). Del Nava si diceva essere di grande diligenza, mediocre abilità e grande moralità.

Al di là delle discrepanze rispetto all’età del parroco, emerge il fatto che, alla data del 1825, la scuola femminile non era stata ancora istituita, contravvenendo in ciò a quanto previsto dalla legislazione vigente.

4. Possibile utilizzo e sviluppi

Il documento presentato può essere letto come segno dei tempi assieme agli altri citati, che possono essere comodamente recuperati seguendo le indicazioni archivistiche. Interessante sarebbe ampliare la ricerca agli anni successivi studiando il titolo “Pubblica istruzione” dell’archivio della Delegazione Provinciale di Bergamo, anche se la documentazione successiva al 1825 non è adeguatamente descritta dall’inventario dedicato. Altro versante di ricerca l’archivio comunale anche se, che come detto conserva documentazione relativa all’istruzione solo a partire dal 1898. E’ possibile comunque trovare materiale interessante, relazioni di fine anno dei maestri, circolari di autorità superiori, prospetti e dati statistici.

5. Bibliografia

Ricca è la bibliografia sulla storia dell’istruzione in Lombardia e in Italia. Citiamo solamente:

  • E. Robaud, "Disegno storico della scuola italiana", Firenze, Le Monnier, 1961;

  • A. Pagliari, "Istruzione femminile e maestre nella Lombardia della Restaurazione: le scuole elementari pubbliche", in "Il Risorgimento", n° 1/1998;

  • G. Vigo, "Il maestro elementare italiano nell'Ottocento. Condizioni economiche e status sociale", in "Nuova rivista storica", anno LXI, gennaio - aprile 1977;

  • S. Bucci, “La scuola italiana nell’età napoleonica. Il sistema educativo e scolastico francese nel regno d’Italia, Bulzoni, 1976;

  • E. Brambilla, “L’istruzione pubblica dalla Repubblica Cisalpina al Regno Italico”, in “Quaderni Storici”, 1973, 23;

  • A. Bianchi (a cura di), “L'istruzione in Italia tra Sette e Ottocento”, Brescia, Editrice La Scuola, 2007;

  • G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2006;

  • E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996

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Comune di MOZZO (BG)

Fabio Luini della cooperativa ArchimediA S.C.R.L.
Archivio di Bartolomeo Colleoni
archimedia.coop@tiscali.it

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1 Come esempio letterario, si veda l'esordio del romanzo di Edmondo De Amicis La maestrina degli operai.

2 C. Wright Mills ha definito “gli insegnanti, specialmente quelli elementari e medi…il proletariato economico dei professionisti".

3 Fino alla legge Casati i maestri dovevano provare la loro buona condotta mediante un certificato rilasciato dal parroco. Ad esso venne sostituito “l’attestato di moralità” rilasciato dal sindaco.

4 In valle Camonica, ad esempio, una gravidanza in assenza di legame matrimoniale comportò l'immediato licenziamento di una maestra

5 Importante uomo politico italiano che fu anche presidente del consiglio nella primavera del 1906

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